Matriarché, intervista a Luciana Percovich

L’intervista realizzata per Matriarché a Luciana Percovich che ci racconta chi è l’archeologa lituano-americana Marija Gimbutas e perché è importante conoscere le sue ricerche.
Perché, secondo te, in questo particolare momento storico è importante recuperare il valore del sacro femminile?
Durante la lunga prima fase della storia dell’umanità, e soprattutto nei millenni che precedettero l’affermarsi delle civiltà patriarcali, le donne – attraverso il cui corpo veniamo alla vita – sono state osservate, narrate e raffigurate come espressione della forza creatrice in migliaia di storie di creazione e di statuette femminili, tornate alla luce in abbondanza durante l’ultimo secolo. Una forza creatrice non circoscritta alla “riproduzione della specie”, ma che includeva capacità di invenzione, di governo, di cure finalizzate a un ponderato utilizzo delle risorse naturali. E proprio mentre avveniva questa riemersione di memorie perdute del passato, in nome della modernità, delle esigenze del mercato del lavoro quando ancora era in fase espansiva e, più in generale, di un malinteso processo di emancipazione delle donne, che le voleva uguali agli uomini, nel XX secolo abbiamo conosciuto la perdita totale del senso del sacro collegato alla potenza del corpo femminile. Tutto ciò è avvenuto grazie all’azione congiunta di una pseudo rivoluzione sessuale finalizzata alla mercificazione dei corpi, di religioni tuttora misogine e dogmatiche, e dei “progressi” della scienza, in campo medico in particolare.
Oggi, molte donne nel mondo occidentale sono drammaticamente lontane dal senso profondo del vivere in un corpo sessuato al femminile, e stanno perdendo anche le capacità proprie dei loro corpi: per molte ragazze il sangue mestruale (sangue e sacro condividono la stessa radice linguistica) è un inspiegabile fastidio da nascondere, la capacità di partorire naturalmente – quando non addirittura la capacità stessa di concepire – viene meno (l’Italia è al primo posto in Europa per la frequenza dei parti cesarei programmati) e tutto il ciclo fisiologico della fertilità, menopausa compresa, è caduto sotto una rigida medicalizzazione farmaceutica. Il corpo femminile, ridotto a organi e funzioni, sta rapidamente perdendo quel che restava della sua potenza originaria.
Chi è Marjia Gimbutas e perché le sue ricerche di archeo-mitologia sono così importanti?
L’archeologa lituano-americana Marija Gimbutas (1921-1994), riprendendo la strada aperta da pionieri quali Gordon Childe, Jacquetta Hawkes, Arthur Evans, James Mellaart e Jane Ellen Harrison, ha riportato alla luce la civiltà pacifica ed egualitaria dell’Europa del Neolitico, che per oltre 4000 anni era rimasta nascosta sotto gli strati delle culture dei popoli insediatisi al suo posto: come i Faraoni che, dapprima seduti sulle ginocchia della madre Iside, da un certo punto in poi siedono soli sul trono. Trono che è il simbolo stilizzato e desessuato di ciò che rimane nelle culture patriarcali della sapienza sviluppata dalle precedenti società matrifocali.
Grazie alla sua straordinaria formazione accademica oltre che in archeologia in mitologie comparate, linguistica, folclore ed etnografia storica, alle sue campagne di scavo nella penisola balcanica in siti inesplorati e al suo metodo d’indagine interdisciplinare per cui lei stessa ha coniato il termine archeo-mitologia, M. Gimbutas ha mostrato come l’Europa nel Neolitico avesse conosciuto una lunga fase di civiltà tutt’altro che “primitiva”, che precedette di qualche millennio l’arrivo dei popoli che comunemente definiamo indo-europei. La gente viveva in insediamenti anche vasti, che non mostrano traccia di guerre né di disuguaglianze sociali o di genere, si dedicava alle arti oltre che alla produzione dei beni necessari alla sopravvivenza e aveva sviluppato un raffinato sistema di credenze religiose, al cui centro stava la figura della donna. Che nel suo corpo e con i suoi ritmi naturali esprimeva la ciclicità del tempo, delle stagioni della terra e delle stelle, della vita che si rinnova e della rigenerazione che segue a ogni morte. Dalla loro arte, dalla posizione e dalla planimetria dei villaggi e delle case, dal ricco simbolismo ricorrente emerge con forza un senso di armonia e un orientamento verso la ricerca costante di un equilibrio dinamico tra le forze divergenti. Elementi che indicano la coscienza e la volontà di sostenere il processo continuo della Creazione.
Quindi M. Gimbutas ha riportato indietro di molti millenni l’orologio del tempo storico, mettendo in discussione il concetto stesso di “civiltà” finora attribuito proprio ed esclusivamente a quei popoli guerrieri che, in ondate successive durate circa due millenni a partire dal 3500 a.c., arrivarono a cavallo e con armi sempre più micidiali, arrestando quella Civiltà e imprimendo alla storia un’altra direzione.
Che legame c’è tra gli studi di Marija Gimbutas e le ricerche sui Pelasgi di Momolina Marconi?
Anche Momolina Marconi (1912-2006) ha dedicato la sua vita alla ricerca di una comprensione più ampia dell’antico passato europeo, consapevole dei limiti della collocazione dell’inizio della storia occidentale nella Grecia Classica e a Roma. Il suo primo e più importante libro è del 1939, Riflessi Mediterranei nella più Antica Religione Laziale, pubblicato quando aveva solo 27 anni. Docente di Storia delle Religioni presso la facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Milano, ha ricoperto questo incarico ininterrottamente dal 1948 al 1982.
La sua formazione era letteraria ed è sulla base della sua sconfinata conoscenza di testi e autori classici che ha realizzato il suo compendio sulle vicende, le parentele e le sovrapposizioni delle divinità mediterranee. L’altrettanto vasta conoscenza dei reperti archeologici, custoditi in Italia e nei vari musei e siti del Mediterraneo, ha sostanziato le sue intuizioni fornendo le prove iconografiche di una religiosità inequivocabilmente centrata sul femminile.
Nel tardo Paleolitico e nel Neolitico l’Italia, comprese Sardegna e Sicilia, era popolata da una popolazione di cultura affine a quella del resto del Mediterraneo, scrive M. Marconi. Erano popoli come i Protosardi, o i Paleoetruschi, strettamente imparentati con i Minoici e gli abitanti delle coste del Mar Nero, fino alla Colchide. La Colchide ha un’importanza centrale nella sua visione: questa regione, che si affaccia sul Mar Nero orientale, è la zona dove il Caucaso scende nel mare, con alle spalle un vasto territorio a quel tempo chiamato Iberia. E’ da qui che si diffuse la popolazione mediterranea pre-indoeuropea che, un po’ alla volta, s’insediò lungo tutte le coste del Mediterraneo, arrivando fino alla Spagna, e portò con sé i nomi delle terre d’origine. Erano i Pelasgi, o Popoli del mare, un insieme di popoli con un’origine comune. M. Marconi azzarda delle ipotesi anche sulla loro origine più remota (che le recenti indagini sulla genetica delle popolazioni hanno confermato): erano popolazioni nord-africane, spintesi a nord e poi diffuse nel bacino mediterraneo, o attraversando il mare o risalendo via terra attraverso la Palestina e il Medio Oriente, stabilendosi lungo i territori che si affacciano sull’attuale Mar Nero. I rinvenimenti ossei di tutto questo vasto areale attestano la presenza di una popolazione “dolicocefala mediterranea”, le cui tracce arrivano fino in India e a Ceylon, passando per l’Anatolia.
Questa tesi, recentemente riproposta sulla base dello studio dell’euskera, la lingua basca, con le sue somiglianze con l’etrusco, il cretese-minoico, l’iberico-tartesico e il berbero, ricevette un’importante conferma nel 1935-36, quando nella vallata del fiume Indo venne scoperta la civiltà di Mohenjo Daro e Harappa dall’archeologo Gordon Childe. I resti di quegli ampi e articolati insediamenti urbani, datati dal 2700 al 2000 a.c., presentano caratteristiche molto diverse dalla successiva cultura indo-aria, sia dal punto di vista architettonico che delle divinità venerate. M. Marconi, come altri studiosi di quegli anni, fu colpita dalla grande somiglianza tra le popolazioni mediterranee e questa nuova antica civiltà di cui si erano finalmente ritrovate le tracce, che confermava l’ipotesi che la civiltà pelasgica si fosse estesa dalla penisola iberica fino alla vallata dell’Indo, comprendendo anche l’Egitto pre-dinastico.
Con M. Marconi ci troviamo quindi davanti a una visione complementare a quella di M. Gimbutas. Non credo che quest’ultima conoscesse il lavoro di M. Marconi, che non compare nei suoi riferimenti bibliografici, probabilmente per la semplice ragione che l’opera di Marconi non ha avuto circolazione fuori dal nostro paese, come capita spesso ai libri scritti in italiano. I suoi scritti, pubblicati fra il 1939 e il 1942, videro la luce negli anni della guerra, gli stessi in cui M. Gimbutas frequentava l’università a Vilnius e si laureava nell’alternarsi delle invasioni tedesca e russa: fa riflettere constatare che entrambe abbiano studiato e pubblicato in quel periodo di conflitto “mondiale”. Né Momolina poteva conoscere nulla del lavoro di Marija, in quanto i risultati dei suoi studi cominciarono a uscire dopo il 1956.
Spesso nei tuoi studi ti sei occupata del passaggio dalla dea madre, legata alla natura, alle dee olimpiche, che stanno intorno a Zeus. Potresti approfondire questo argomento? Com’é avvenuto il rovesciamento dalle divinità creatrici ad ancelle di uno o più dèi maschi?
Le cosiddette veneri steatopigie (ossia dai fianchi grossi) sono datate dal 30.000 a.c. in poi e per quanto riguarda il nostro continente sono state trovate dalla penisola iberica fino a Ma’alta in Siberia. L’interpretazione che più mi convince è di vederle come simboli della Vita che si Rinnova, come metafore di abbondanza e di eternità.
Tra queste la Venere di Laussel, che regge alto nella mano destra un corno con incise 13 tacche mentre la mano sinistra sta poggiata sul ventre: primo esempio di misurazione del tempo (l’anno lunare, che ovunque ha preceduto l’invenzione più tarda dell’anno solare, conta 13 cicli lunari) e di collegamento con il sangue mestruale e, in sua assenza, con la gravidanza. Conoscere l’alternarsi delle stagioni, i movimenti degli animali e delle piante ad esse associate e gli spostamenti delle costellazioni nel cielo è stata la prima forma di conoscenza astratta, e tuttavia fortemente legata alla fisicità, una sofia di cui il corpo delle donne era la cifra più diretta e sacra. Loro erano le madri cosmiche, che davano la vita e la forma, ossia le conoscenze necessarie alla fragilità degli umani per assecondare e inserirsi (e “sfruttare” a proprio vantaggio) con successo nel continuo flusso naturale. Loro conoscevano le virtù delle piante, insegnavano i ritmi del tempo, mettevano al mondo e accompagnavano alla morte. Loro iniziarono a tessere i tessuti, a cuocere i cibi e le argille trasformandole in terracotte. Loro iniziarono i rudimenti della coltivazione delle piante e l’addomesticamento degli animali.
Come i popoli pre-indoeuropei chiamassero nel Neolitico queste “madri cosmiche”, quando il passaggio alla stanzialità e alle prime forme di addomesticamento di vegetali e animali provocò un’enorme rivoluzione nelle abitudini umane, non ci è dato sapere. Possiamo solo immaginare che venissero indicate ed evocate con un termine riassuntivo della loro potenza, tradotto nel termine greco potnia (che contiene la stessa radice di potere/potenza): il Mediterraneo è pieno di raffigurazioni di signore (appellativo usato a sua volta come equivalente di potnia) delle piante, degli animali selvatici, degli uccelli.
Solo dopo l’avvento dei popoli invasori, che portarono con sé divinità maschili del tuono e del fulmine, del vasto e minaccioso cielo delle tempeste che si scatenavano sulle sconfinate pianure russo-siberiane, nacque verosimilmente il concetto di “dio”, parola originata da una comune antica radice proto- indoeuropea – che significa “chiaro, luminoso” in riferimento alla loro diverse caratteristiche fisiche – in un contesto familiare, sociale, politico e culturale che i nuovi gruppi di pastori, nomadi e guerrieri si sforzavano in tutti i modi di capovolgere nelle forme e nei valori. Fu in questo modo che nell’originaria e millenaria devozione a figure femminili cominciò a essere usato il termine dea per ciò che restava, spezzato e frammentato, della grande madre cosmica, ridotta sempre più spesso al ruolo imposto di moglie, sorella o figlia dei nuovi “dèi” del nuovo ordine patriarcale.
La creazione del pantheon olimpico fu il capolavoro di questo nuovo modello sociale e culturale. In esso vediamo la razionalizzazione ideale del “caos” precedente, attraverso una funzionale sistemazione genealogica e uno smembramento della Potnia: come il clan matriarcale era stato spezzato e almeno una donna era stata assegnata a ogni uomo, così a ogni singola “dea” fu attribuita una minima frazione della competenza “cosmica” della madre: a una l’amore, a un’altra il sesso, a un’altra ancora la pertinenza delle messi, o del focolare, del matrimonio, della caccia, della tessitura e via di seguito.
In questo modo stava cambiando il senso stesso di intendere la relazione con il tutto di cui ciascuno/a è parte, finché fu mentalmente concepito il Dio Unico Creatore che, con un gesto di iperbolica superbia, si auto-espulse dal creato: con l’avvento del monoteismo il principio divino si disincarna e cancella la sua origine, sorvolando sull’evidenza che la vita si crea nel femminile delle specie, che nasciamo da corpi di donne. E contemporaneamente riduce il mettere al mondo a mero fatto fisico, di riproduzione, di fecondità puramente animale/biologica, che nulla ha da spartire la grandiosità astratta della Genesi Divina Maschile.
Luciana Percovich, Matriarchè, luglio 2013
(Clicca qui per vedere un documentario, con regia di Aldo Silvestri, in cui sono presenti le tematiche del libro “Matriarché”.)